La vulgata racconta che Maria Giovanna Battista di Nemours, fresca vedova del duca Carlo Emanuele II e dunque reggente del Granducato di Savoia, volendo porre rimedio ai problemi intestinali del giovanissimo figlio, nonché erede al trono, Vittorio Amedeo II Francesco – poi soprannominato, a ragione, La Volpe Savoiarda – incaricasse il medico di corte, Don Teobaldo Pecchio, di trovare un rimedio efficace che guarisse il delicato e prezioso principe. La diagnosi del medico individuò l’origine del male nella pessima qualità del pane, la ghërsa (una sorta di pagnotta allungata), che allora nutriva tutti i piemontesi, nobili e plebei.
Il medico era di Lanzo, paese vicino alla reggia della Venaria, e dallo stesso paese proveniva il panettiere di corte, Antonio Brunero che certo ben conosceva la Bottega della Ghërsa, situata in contrada Maestra, a Venaria Reale, nei pressi di quella che oggi è piazza Don Alberione; in quel forno si produceva un pane allungato mal impastato e mal cotto che tutti mangiavano (la ghërsa, che in piemontese significa “fila”, e si pronuncia con la “e” muta).
Medico e panettiere si misero al lavoro e, così racconta A. Viriglio, inventarono il grissino stirato: ghërsa, ghërssin, grissino, come è facile intuire senza ricorrere a sofisticate analisi etimologiche.
Era il 1675, Vittorio Amedeo aveva nove anni (nacque a Torino il 14 maggio 1666) e il padre era appena deceduto.
Il principe guarì così bene che poi divenne il primo sovrano dei Savoia e a Venaria si racconta che a tutt’oggi, oramai trapassato da sovrano a fantasma, si aggiri nottetempo nelle sale della Reggia sgranocchiando i suoi amatissimi grissini.
La storia è una palese invenzione.
Già oltre trent’anni prima, nel 1643, l’abate fiorentino Vincenzo Rucellai, passando per Chivasso in un suo viaggio verso la Francia, scriveva di aver apprezzato: «[…] una novità, sebbene di stravagante forma, vale a dire del pane lungo quanto un braccio e mezzo e sottile a similitudine di ossa di morti».
Non soltanto: in alcuni documenti del XIV secolo si cita un certo tipo di Pane Barotellatus, e in piemontese barot significa “bastone”. Non ci sono certezze se non che già nella prima metà del XVII il grissino, nelle due varianti classiche – stirato e robatà (la “o” quando non ha l’accento, nella grafia moderna, si pronuncia “u”; ma si può trovare anche la variante rübatà) – era già assai diffuso e apprezzato a Torino e nei paesi limitrofi.
Quando e dove sia stato impastato il primo grissino e se fosse stirato o robatà è impossibile da stabilirsi.
Rimanendo ai fatti storici certi, è acclarato quanto Napoleone fosse ghiotto di quelli che chiamava: les petites batons de Turin. Provò a portarsi dei panificatori a Parigi ma lì i grissini non venivano bene; allora mise a punto un servizio postale celere che glieli servisse fragranti di giornata!
Pure Carlo Felice di Savoia era ghiotto di grissini: pare se li facesse impastare con polpa di trota (e li sgranocchiava nel suo palco del Teatro Regio…).