
Quando Vincenzo parla o scrive di vino, e di quanto con il vino confina,
occorre dargli credito: è in qualche modo, come si dice, competente.
La sua storia puzza di vino fin dal concepimento: infatti, la mamma
Laura s’invaghì del giovane Giuseppe mentre questi era impegnato a
potare una vite di Gaglioppo.
Si era a Cirò, nei primissimi anni Cinquanta: il nonno Vincenzo guidava
una squadra di esperti potini e innestini che girava per la Calabria
dei grandi latifondi curando oliveti, aranceti e vigne.
Giuseppe e suo fratello Salvatore erano i più giovani di un gruppo,
guidato dal padre, che era stato ingaggiato a Cirò per curare i frutteti e
le vigne dei conti Siciliani.
E quanto bevevano: tutti e tra loro il patriarca Vincenzo, campione
indiscusso!
Erano originari di un paese situato sulle pendici boscose della Sila e
da generazioni si occupavano di vino, olivi, castagne, agrumi. Possedevano
una bella vigna, posta a circa 500 metri di altitudine – nella zona
che oggi è parte della DOC Donnici – con vitigni come Gaglioppo, certo,
ma anche Greco, bianco e nero, Nerello e Malvasia.
Al vino Vincenzo è stato iniziato dal nonno omonimo già in fase di
svezzamento, e il vino ha continuato a frequentarlo per tutta la prima
infanzia in quei densi riti contadini oggi tracannati e ormai annichiliti
dal tempo.
Né, per certo, la discesa verso Torino – verso un malinteso benessere
che tra i Cinquanta e i Sessanta era il volano che alimentava i sogni
degli ignari contadini meridionali – servì per annacquare quell’innato
talento: in maniera assai naturale, il Gaglioppo e il Nerello vennero
declinati in Barbera e Dolcetto che erano acquistati direttamente dai
contadini astigiani (soprattutto in Agliano). Più tardi, Giuseppe con i
fratelli Salvatore e Giovanni il vino presero a farlo in prima persona,
acquistando le uve da fidati fornitori.
Vincenzo il vino continuò a berlo e la sua vicenda personale lo portò,
nei primi anni Ottanta, a conoscere a Parigi i vini francesi e a frequentare
in Italia la ristorazione di qualità in cui poté, fra i primi, apprezzare
quei Tignanello e quei Sassicaia che allora sconvolsero e contribuirono
a elevare la qualità del vino italiano.
Ha avuto la grande fortuna di conoscere Luigi Veronelli, intorno al
1997, e di frequentare via Sudorno, Bergamo Alta; Vincenzo ama raccontare
che Veronelli è stato suo maestro: non è vero. Pur riconoscendone
l’immensa competenza, da lui non ha imparato un bel nulla di
tecnico e, men che meno, ha imparato leggendo la sua saltabeccante
scrittura: di Luigi Veronelli egli, invece, ha sempre apprezzato la straordinaria
umanità e quella sua capacità di rimanere sempre pulito, fedele
a se stesso e aperto agli altri senza pregiudizi di sorta. Se ha avuto
un maestro, a parte il nonno e il padre, questo è stato per certo Paolo
Monelli, di cui ha letto e consumato tutti i libri. Né ha in gran stima il
troppo apprezzato Mario Soldati: di lui Monelli, a ragione, soleva dire
che di vino capisse poco o punto.
A cominciare dal 2002, Vincenzo collabora con il periodico Barolo &
Co, chiamato da Elio Archimede. Poi gli capita di andare in Toscana per
circa un anno a occuparsi di una grande azienda agricola e agrituristica
con quasi un centinaio di ettari di vigna, posta sulle alture tra Arezzo
(Monte San Savino) e Siena (Castelnuovo della Berardenga). Qui accumula
esperienza diretta sia in vigna – soprattutto – sia in cantina.
Continua a scrivere per Barolo & Co, dipinge con il vino e fa mostre
in Italia e in giro per il mondo. Nel 2009 esce Più o meno di vino, il suo
primo libro sul tema specifico. Dal 2010 scrive anche per il mensile
Horeca Magazine e, soprattutto, sul proprio sito web.
Quanto sopra per raccontare un poco della storia, per certo peculiare,
che fa di Vincenzo un uomo di vino, anche.
Ma c’è di più, non è così semplice: a sentirlo parlare, per lui il vino è
ossessione, è materia creativa, è magia, è sacro impasto di mito e rito, è
storia di uomini, è antropologia, è archeologia…
Ma credo che, in fondo e prima d’ogni altra faccenda astrusa, il vino
per Vincenzo sia soltanto una bevanda che gli piace tanto e gli sa tenere
compagnia.
Salute, amico mio.
Emberto Uco